Benvenuti, cari assistenti spirituali degli istituti di pena!
Evidentemente, se vi riunite qui per un‘ora di ritiro, non possiamo spenderla ad escogitare i metodi per rendere il vostro ministero più fecondo e ricco di benedizioni per coloro che sono affidati alle vostre cure; dovremo invece utilizzarla per vedere come l‘assistente spirituale in un settore così delicato come il vostro possa trovare personalmente Dio nell‘ufficio assegnatogli.
Siccome il ministero della cura d‘anime disinteressata si rivolge agli altri, esso è autentico amor del prossimo e non può trasformarsi in egoismo. Ci sforzeremo quindi di concedere un ampio margine di movimento alla semplicissima eppur fondamentale costatazione che noi, nella nostra esistenza sacerdotale, riusciremo a servire gli altri solo nella misura in cui noi stessi saremo ricolmi della grazia di Colui al quale rendiamo testimonianza, obbligati come siamo a comunicar1o agli uomini nella sua parola, nei suoi sacramenti e nella sua grazia. In questo, nulla cambia la missione ufficiale oggettiva: nemmeno il potere dell‘«opus operatum». No, perché entrambi devono venir accolti dagli uomini, per divenire efficaci. Ma verranno accettati soltanto allorché coloro che glieli offrono sapranno — mediante la loro attitudine genuinamente cristiana — far apparire degna di fede tanto la loro missione oggettiva, quanto l‘offerta che gli porgono.
D‘altra parte non possiamo nemmeno scusarci dicendo che lo stesso servizio disinteressatamente prestato agli altri santifica la persona che lo presta; oppure che quanto più l‘uomo oblìa e mortifica se stesso in questa nobile opera, tanto più egli viene inondato dalla grazia di Dio, sì da avere sempre più forti probabilità di conquistare il prossimo facendo assegnamento sulla forza dello Spirito. Questa affermazione, nel suo significato positivo, è vera. Ma farebbe presto a cambiarsi in un pericoloso trabocchetto di menzogna, se si ritenesse che essa possa costituire l‘unica e universale norma per la nostra missione.
Nella vita spirituale, non si dà alcuna massima di questo genere, automaticamente suscettibile di esprimere in una formula complessiva l‘intera vita spirituale. Non si può assolutamente sintetizzare tutto in un esercizio solo. Noi infatti siamo delle creature, che, anche sotto questo aspetto, non hanno un‘unica stabile dimora, ma viceversa devono in tutta umiltà fare tante cose se vogliono raggiungere il Tutto. Sicché, ci tocca sforzarci continuamente di avvicinarci a Dio per esser in grado di servire il prossimo, e reciprocamente di servire il prossimo per accostarci sempre più a Dio; una cosa dipende dall‘altra, pur non essendo affatto la stessa. Perciò, in quest‘ora di ritiro siamo chiamati, proprio dall‘impegnativo ufficio di cui siamo rivestiti, anche a prenderci a cuore la nostra salvezza personale pur in mezzo a tutte le preoccupazioni del lavoro che svolgiamo
Riassumiamo in due punti i pensieri che andremo sviluppando:
1. Nei carcerati affidati alle nostre cure pastorali, noi troviamo il Signore Gesù.
2. Nei carcerati troviamo noi stessi, in quanto vediamo riflessa in loro la nostra stessa situazione personale intima.
Christo nei carcerati
Nei carcerati troviamo N. Signor Gesù Cristo. E dobbiamo trovarvelo, sapendo individuarlo realmente in modo da andargli gioiosamente incontro per la nostra salvezza e per la nostra felicità.
Non è affatto necessario che vi rammenti la vostra esperienza di assistenti religiosi agli istituti di pena. Quest’esperienza, la più amara, la più crudamente realistica, voi la possedete di già assai meglio di quanto potrei descrivervela e farvela provare io.
È l‘esperienza delle esistenze umane fallite, delle defezioni spirituali e morali; è il contatto con i labili, gli psicopatici, i cattivi, gli avventurieri, i ciniei, gli ipocriti, e i mentitori, gli istintivi senza eontrollo, le vittime delle circostanze, i maniaci, i recidivi impenitenti, gli impenetrabili al pensiero religioso, i poveri diavoli, gli imbecilli. Quantunque nelle carceri non sia questa sola l‘esperienza che fate, quantunque là dentro incontriate anche degli uomini che per principio pensavate di poter considerare come persone solite, normali ed oneste, dovrete confessare che spessosarete stati presi dal ribrezzo per quell’umanità con cui dovevate trattare. Sarete senz‘altro stati spesso ingannati, considerati dei poveri illusi, ripagati con l‘ingratitudine; vi sarete trovati a battere invano alla porta di cuori inesorabilmente chiusi, a prestare aiuto per poi venir respinti come rapprescntanti di istituzioni odiate. Avrete sofferto per l‘inanità dci vostri sforzi, per il disperato fallimento d‘ogni onesto tentativo di avvicinamento.
Avrete sovente avuto l’impressione che tutte le vostre fatiche, la vostra sollecitudinc, la vostra carità e pazienza, il vostro lavoro andassero a cadere in un abisso senza fondo dal quale non saliva la più lontana eco d‘una risposta. Voi insomma sietc gli uomini deputati al perenne contatto col male, nella sua più ottusa, irritante, disperata e odiosa realtà! Lo sapcte meglio di me.
Ebbene, leggiamo ora le parole di Cristo, quelle incredibili, commoventi, avventurate e preziose parole: «Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno dei cieli, preparato per voi sino dalla creazione del mondo…, perché ero carcerato e veniste a trovarmi… Allora i giusti gli rispoderanno: Signore, quando mai ti vedemmo… carcerato e siam venuti a visitarti? E il re risponderà loro: „In verità vi dico: ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l‘avetc fatto a me“ (Mt. 25,34-40).
Penso che innanzitutto dobbiatc profondamente rallegrarvi di queste parole. Esse sono fatte per voi; valgono per voi senza bisogno di alcun adattamento, così come suonano, così come sono state pronunciate. Non è necessario renderle più esplicite, aggiornarle alle nuove situazioni. Voi vivete una forma di vita antichissima, fissa ed immutabile; una vita che Gesù stesso ha prevista nella sua fisionomia inalterabile, delineandola così com’è, elevandone e consacrandone il valore esistenziale ad espressione del giudizio di Dio: d‘un giudizio che imprime il suo indelebile suggello su tutta la storia mondiale, torchiando sin l’ultimo residuo di qucsta storia per trasformarlo nel vino inebriante dell’eterna felicità. Poche sono le mansioni in grado di godere sino in fondo queste parole; poche le vocazioni ad uno stato di vita suscettibili di sentirsi risuonarc all’orecchio, immutato, l‘appcllo uscito dalle labbra dcl Figlio dell’Uomo sintetizzato in un discorso così realisticamente umano eppur così celestiale e divino.
Ma appunto per tal motivo, voi dovreste rimanere allibiti di fronte a queste parole. Vi viene comandato di vedere il Signore in coloro che visitate nelle carceri. Quale tremendo ed esorbitante dovere! Non venite a dirmi che la parola di Cristo non va poi presa così alla lettera, e che in fondo ci vien richiesto solo un po’ di compassione umana, un po’ di aiuto ragionevolmente dosato, un po’ di sobrio realismo che non si lascia abbindolare ma nemmeno dubita dell‘umanità per partito preso. Non tiratemi fuori che basta avere un ottimismo umanistico capace di credere al lato buono esistente in ciascun uomo, cercando di svegliarlo nella convinzione che sussiste ancora qualche probabilità di migliorarlo; e allorché questa tattica non funziona, basta consolarsi pensando che alla fin fine ci sono delle forme psicopatiche, le quali vanno curate al pari delle altre infermità, senza però che esse possano pretendere di starci a cuore più delle altre ma672lattie che in conclusione conducono tutte alla morte, risultando incurabili senza che per questo l’umanità debba perdere il suo buon umore. No e poi no, assolutamente. Da voi si richiede assai di più.
Voi dovete vedere il Signore, nel prigioniero. È lui che vi deve venire incontro, per la vostra salvezza, in questo prigioniero. Diversamente, non staremmo forse anche noi cercando — in nome del realismo positivo, della ragione e dell‘esperienza nostra — di domandare al Signore, con una improntitudine fredda e in sostanza priva di qualsiasi vibrazione sentimentale: „quando mai ti abbiamo visto prigioniero?“. Non tentiamo forse anche noi di scusarci dicendo: eravamo in carcere, ma te, là dentro non t‘abbiamo trovato? Abbiamo sì trovato dei miserabili, dei poveri diavoli, dei cinici malfattori. Ma te? No, Te proprio no. Arriveremo magari a dire: non abbiamo nulla in contrario, dato che tu sei così magnanimo e condiscendente, a considerare — in una specie di grandiosa finzione celestiale — i servizi e l’assistenza carceraria da noi espletata, come un ossequio prestato a te. Cosa buona, bella e giusta; non abbiamo nessuna riserva da fare contro questa finzione. Ma resta pur sempre una finzione. Tu sei tu; questa gente, invece, è quello che è. E quindi te, non t’abbiamo trovato nelle prigioni. Meno che mai, in questi tetri luoghi…
Gesù però ci dice che le cose stanno altrimenti.
Gesù respinge tutto il nostro realismo come irreale.
Con questi poveri uomini, egli non si identifica affatto per una «fictio iuris »; vi si identifica invece in modo così concreto, che possiamo trovarcelo in tutta verità. Dobbiamo lasciare alla sua parola tutto il suo valore. E crederla così come suona. Possiamo sì riflettere come faccia ad esser vera; ma dobbiamo ritenerla infallantemente vera. Possiamo casomai sgomentarci, osservando quanto poco dobbiamo aver capito dell‘amore di Dio esternatoci in Cristo. Possiamo rimanere esterrefatti costatando la nostra incomprensione nei confronti della «agape» di Dio, vedendoci così refrattari a capire come nel mondo esista realmente l‘amore di Dio. Un amore che abbraccia tante cose anche quando noi non vediamo nulla di degno d‘essere abbracciato; un amore che non s‘abbassa per mera condiscendenza generosa, ma s‘identifica realmente e positivamente con questi poveri peccatori; un amore che si dona e si espone, che s‘abbandona e si prodiga; un amore in cui l‘amante si ritrova soltanto proiettandosi nell‘amato. Dobbiamo pensare che questo amore é creativo e trasfigurato, che è stato preso cosi sul serio e radicalmente da spingersi fino alla morte, e alla morte di croce, abbassandosi fin dentro la voragine buia ed abissale degli abbandonati da Dio e delle creature votate alla morte per assoluta mancanza d‘amore, ottenendo proprio qui la sua vittoria e la riabilitazione di tutto. Non dobbiamo dimenticare che esso e stato un amore che ha dato il Figlio dell‘Uomo in balìa della maledizione proprio per redimere ciò che era irrimediabilmente perduto, ciò che di per sè era disperato e morto per sempre, ciò che rabbiosamente si chiude ad ogni manifestazione d‘affetto, ciò che con freddo scherno e cinica ostinazione liquida l‘amore, la delicatezza di coscienza, la bontà e la fedeltà ad una legge morale, come bugiarde utopie.
È> con questi peccatori, che 1‘Amore ha voluto realmante identificarsi. Diversamente essi non sarebbero stati redenti. Diversamente sarebbe stato salvato soltanto ciò che è già salvo di per sè; il che per altro non corrisponde a verità, quantunque spesso siamo traditi dalle apparenze e pensiamo che quanto di fondamentalmente buono si trova sulla faccia della terra sia stato accolto da Dio perchè intrinsecamente buono, invece di credere che sia stato da lui riaccolto ciò che era effettivamente perduto appunto per renderlo buono.
Dobbiamo pensare, ravvivando la nostra fede e opponendoci alla nostra „esperienza“‚ che il Siganre si trova realmente in queste creature perdute, nei rottami umani che incontriamo in carcere.
Egli si trova in loro con la sua infinita benevolenza, che chiama la nullità e la perdizione personificata per nome, risuscitandola a nuova vita; è in loro con la sua pazienza e sopportazione, con la sua onnipotenza che anche in questo relitto della vicenda umana vede una persona, un lembo di eternità, un fratello del Verbo di Dio fatto carne, un prediletto, una creatura da accogliere con preoccupazione divina. E non solo egli la vede così, questa povera creta, ma addirittura la crea di bel nuovo, per il solo fatto di posare su di essa il suo sguardo amoroso. In questi disgraziati, è lui che alberga in tutta verità, perchè il mistero primordiale dell‘amore creativo e plasmatore — che è poi Dio stesso — resterá sempre incompreso, e quindi l‘essenza intima del cristianesimo radicalmente misconosciuta, fintantochè non verrà accettata incondizionatamente per via di fede questa incredibile e paradossale verità, che trascende ed annulla la nostra miserabile e miope esperienza.
Orbene, se vogliamo comprendere a fondo la parola del Signore, abituandoci così a trovare lui nei prigionieri, non dobbiamo limitarci a pensare con spirito di fede e di devozione che egli si trova in loro. Dobbiamo in più riflettere quale sia il modo per noi più adatto a trovarvelo. Sì, perchè il tremendo e fatale pericolo sta nel sempre possibile rischio di non vederlo, quantunque egli sia presente in questi miserabili fratelli perduti e faccia tutt‘uno con loro. Abbiamo la triste possibilità di passargli accanto senza vederlo, i nostri occhi possono restare bloccati, il nostro cuore ottuso e sbarrato, sicché finiamo col non scorgerlo nemmeno. D‘accordo che ora, nell‘intervallo in cui domina la fede e non la visione beatifica, lo troveremo sempre come nascosto da un velo. Fino a che sarà giunto l‘ultimo giorno, resteremo sempre degli eterni e stupiti inquirenti; e anche allora domanderemo, come coloro che non hanno mai visitato e trovato il Signore: «Quando ti abbiamo visto in carcere e siamo venuti a visitarti? » (Mt. 25,39-44).
L‘esperienza continuerà a darci l‘impressione che egli non ci sia, che non sia possibile trovarlo nei carcerati. Ma, nel cristianesimo, l‘importante sta appunto in questo trovarlo pur pensando di non averlo trovato, nel vederlo pur avendo la netta impressione di frugare inutilmente le tenebre, nell‘averlo accanto pur credendo di averlo perduto. E anche nel caso nostro succede lo stesso. Siamo tassativamente tenuti a ricercarlo e a trovarlo nei prigionieri. Purtroppo, si può però non scorgerlo, sfiorandolo ad occhi bendati, persino allorchè si è presenti in carcere col corpo e con 1’«adempimento del proprio dovere »‚ persino allorche si gode fama di ottimi assistenti religiosi dei carcerati.
Orbene, cosa significa allora questo benedetto trovare Cristo nei fratelli chiusi in prigione? Significa innanzitutto avere una rispettosa umiltà di fronte al nostro prossimo, che è anche lui un figlio di Dio e fratello di Gesù Cristo, un chiamato, un prediletto da Dio, una creatura circondata dall‘alone mistico dell’amor divino.
Sappiamo tutti molto bene — e chi pretendesse negarlo sarebbe per lo meno un eretico giansenista, capace di mettere in dubbio l‘universale volere salvifico di Dio — che ogni uomo peregrinante in questa vita è chiamato alla salvezza, amato da Dio, avviluppato dalla grazia di Cristo, anche quando egli non l‘ha ancora accolta in piena libertà. Sappiamo che in fondo non siamo autorizzati a giudicare nessuno, che di nessuno possiamo dire con sicurezza ch‘egli viva in grazia di Dio, come di nessuno possiamo affermare che l‘abbia perduta. E allo stesso modo in cui noi siamo tenuti a sperare — con fiducia incondizionata nel Signore — la grazia misericordiosa di Dio e la salute eterna per noi stessi, abbiamo anche il dovere di un‘identica speranza anche per tutti gli altri, per la semplice ragione che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi. Sappiamo, inoltre, che in ogni uomo è racchiuso un destino in fase di divenire, che l‘uomo va maturando nella futile abitudinarietà della piatta realtà quotidiana e delle dozzinali miseriole in cui la sua vita si svolge.
Tutto questo lo sappiamo e nessuno si sogna di metterlo in dubbio.
Sta di fatto, però, che non siamo capaci di viverlo. Questa dignità infinita, questa inalienabile nobiltà, la realtà innegabile che ogni uomo è incommensurabilmente più d‘un semplice uomo, rappresenta di solito per noi una ideologia assai vaga e saltuaria; sul piano teorico non la discutiamo, perché non ci dà nessun fastidio, né ci impedisce di seguire le norme e le abitudini solite d‘ogni giorno. Viceversa, se lo sguardo che posiamo sul prossimo nella solita realtà quotidiana penetrasse al di là della corporeità, superando tutte le facciate delle sue tendenze istintive e diseducate, della sua fisionomia psicologica e spirituale deformata, le cose andrebbero in modo assai diverso. Se sapessimo vedere oltre tutto ciò che l‘altro intende e vuole per conto suo, oltre le facili autointerpretazioni che non sono in grado di esprimere il vero volto dell‘uomo, oltre tutte le risultanti dell‘ereditarietà, dell‘educazione, dell‘ambiente, delle occulte infermità e delle psicopatie che hanno condizionato in modo decisivo quelle vite traviate, oltre l‘autentico e spaventoso volto del peccato — perché anche questo è tutt‘altro che l‘ultimo elemento della loro perdizione, benché (come ribadisce S. Paolo) esso pure sia abbracciato strettamente dalla immensa e onnipotente misericordia di Dio — ci accorgeremmo di dover cambiare opinione. Se il nostro sguardo, fendendo tutti i fattori accidentali, fosse capace di cercare e trovare negli altri i valori più genuini e perenni, vale a dire Dio, il suo amore e la sua misericordia che ha dato a queste creature una dignità eterna, offrendosi e donandosi a loro senza riserve nell‘incomprensibile annichilazione e nella divina follia dell‘amore, essi ci apparirebbero assai diversi. Se il nostro occhio soprannaturale funzionasse a dovere non soltanto nelle occasioni liete e festose, ma anche là dove ci viene incontro l’uomo col suo sguardo ottuso, con la sua apatia e il suo sentore di poveraglia, dove ci si presenta cupo ed astioso, malvagio e intrattabile, scaltro nella sua stupidità e raffinato nella malizia, allora sì che ci accosteremmo a lui con quella rispettosa umiltà che ci vieta di riconoscere a noi stessi una dignità superiore e una vocazione più santa di quella posseduta da quell‘uomo, per disgraziato che sia.
Allorché noi lo guardassimo con questo alto rispetto, vedremmo davvero in lui il Cristo, il Verbo umanato del Padre, che — consciamente e inconsciamente — viene onorato e venerato dovunque si miri al valore intrinseco di una creatura umana, dovunque l‘uomo sia convinto che con i suoi fratelli di umanità non possono esistere esperienze penose e spaventevoli, capaci di farci guardare gli altri come se si guardasse nel vuoto invece che nel profondo mistero di Dio, nel quale s‘asconde l‘eterno archetipo dell‘uomo, senza cui — come dice bene Angelo Silesio —«Dio non può vivere un solo istante». L‘uomo esiste nella natura e nella sua predestinazione alla grazia, perché Dio ha voluto 1’Uomo-Dio, perché egli stesso ha voluto rivestire il composto umano, perché ormai non esiste più alcuna verità di Dio che non sia anche venità dell‘uomo, perché — in forza della sua libera grazia, d‘accordo, ma che è ormai una realtà innegabile — Dio non esisterebbe, se non esistesse l‘uomo. Per cui, allorché con tutta umiltà e rispetto si accoglie nel proprio cuore la più miserabile creatura e il delinquente più comune, è Cristo che si accoglie e si trova.
E lo si trova — dobbiamo arrischiarci a dirlo? — proprio nel modo migliore. Infatti: dove potremmo sperare di aver la fortuna di ritrovare Iddio, se non in questo caso? Quando la tipica grandezza e bellezza dell‘uomo, la sua bontà e il suo raggiante splendore ci incantano, possiamo certamente vedere in queste cose una porta spalancata sull‘infinita grandezza e bellezza, bontà ed eccelsa fulgidezza di Dio. Di per sé, sì. Ma in tal caso rischiamo anche facilmente di rimanere bloccati, arrestandoci sul piano della mera grandezza umana. Viceversa, questo non può succederci di fronte ai poveri peccatori, quando scopriamo in loro i valori perenni e indistruttibili, quando veneriamo in loro ciò che forse essi stessi non scorgono dentro di sé, quando attraverso loro crediamo in quel Dio che essi non si sognano nemmeno di trovare nella loro misera persona.
Oltre a questa, c’è ancora un‘altra facilitazione a trovar Dio nel prossimo decaduto e sfigurato.
Allorché ci accostiamo al fratello miserabile con la dovuta rettitudine d‘intenzione, considerandolo così com‘è senza venir attratti da alcun senso di simpatia istintiva e fisiologicamente condizionata, perdonandogli quand‘anche nel farlo ci sembri di far la figura dei poveri gabbati, prodigandoci a lui con piena abnegazione senza venir compensati nemmeno dal senso di soddisfazione interiore o in qualche modo indennizzati da un po‘ di gratitudine, allora il Signore ci è più vicino che mai. Infatti, quando il nostro incontro col prossimo insensibile ci abbatte nella più squallida solitudine, quando tutto l‘amore che gli offriamo ci appare come un disperato salto nel buio più assoluto, allora scocca davvero nella nostra vita l‘ora di Dio, allora egli è davvero presente dinanzi a noi. Basta che non retrocediamo, che non ci sentiamo a disagio, che non cerchiamo compensi d‘altro genere o in altri campi, che non facciamo piagnistei, che non ci autocompassioniamo, conservando invece un dignitoso silenzio, accettando animosamente il rischio di prodigare l‘amore a fondo perduto sino a rasentare la follìa.
Questa è l‘ora di Dio. Qui essa si manifesta: nell‘apparente disagiata vastità della nostra esistenza che si spalanca su questa disperata esperienza del prossimo, nella sconfinata immensità di Dio che si comunica a noi, nei prodromi con cui si delinea già l‘avvento della sua infinità che non ha più strade: quell‘infinità che viene sperimentata come il nulla, appunto, perché é priva di dimensioni. Allorché non ci saremo buttati a capofitto in questo incontro col prossimo, in cui attraverso l‘involucro terreno ci sembrerà di raggiungere solo la sabbia mobile della sua inconsistente condotta precipitando così nel vuoto; allorché non apparterremo più a noi stessi, perché in un impeto di abnegazione abbiamo rinunziato ad affermare la nostra personalità o a goderci la vita; allorché in questo incontro tutto — noi stessi compresi — viene da noi relegato come in un remoto cantuccio, allora sí che incominciamo a trovare Iddio. Allora sí che questo desolato e muto abisso dell‘uomo interiore, quasi sommerso nella costernazione, comincia davvero a riempirsi di Dio. Allora sí che finalmente incontriamo il Signore, il Cristo in atto di cadere tra le braccia aperte del Padre, al momento in cui morendo ebbe lui stesso a provare l‘angoscioso abbandono di Dio.
Sulle prime, questo ei potrà risultare strano e insolito; il non esser più padroni di noi stessi ci potrà magari lasciare allibiti, destando in noi la tentazione di rifugiarci come spaventati nella vicinanza, nella riconoscenza, nella netta sensazione di essere amati. Giusto. È una cosa che spesso potremo e dovremo fare. Però dobbiamo imparare gradatamente a ritrovare la vita in questa morte, la compagnia in questa solitudine, Dio in questo abbandono di Dio. Sarà proprio in questa abitudine, da noi acquisita, di saper trovare e sperimentare Dio anche in mezzo alla disillusione dataci dall‘amore verso gli altri, che la nostra carità del prossimo maturerà, trasformandosi in opera dello Spirito Santo. Allora essa diverrà comprensiva, paziente, dolce e priva di angolosità, sempre aperta alla speranza e al riparo da ogni disillusione depressiva. Perché ormai sa trovare Dio sempre e dappertutto.
Non bisogna per altro pensare che il prossimo, e soprattutto il prossimo più deludente, sia perciò stesso un puro mezzo col quale ci vien dato modo di praticare quell‘ascesi di svuotamento e di rinuncia, che Dio per una spontanea misericordia riempie ineffabilmente e intimamente con la sua calorosa presenza. Ciò infatti si verifica soltanto quando si ama veramente l‘uomo, ossia quando lo si accoglie realmente per quello che è‚ quando non si ha la pretesa di trasformare in mezzo utilitaristico questa carità. Ma allorchè, senza alcun secondo fine, l‘amore del prossimo che mira a Dio lo trova per davvero appunto andando incontro al prossimo, allora, proprio la desolata esperienza di Dio che nasce dalle ceneri dell‘egoismo diventa il potere e la forza di amare il prossimo «sino alla fine».
Di questo amore si muore; e si può morire senza cader nella disperazione (memori che da disperati non si può più amare), unicamente quando si muore proiettandosi nell‘amore infinito e vivificatore di Dio.
Bisogna quindi amare il prossimo, cercando lui e non la propria soddisfazione e perfezione personale; ma fino alla fine si riesce a farlo unicamente se vi si trova Dio. E questo vero amor del prossimo viene nobilitato e redento, assicurato e liberato dagli impacci, per il fatto che esso si traduce in atto nell‘ambito dell‘amore di Dio, come un ritrovamento di Dio in Cristo. Di conseguenza, chi s‘imbarca nell‘avventura mortalmente rischiosa dell‘incondizionato amor del prossimo, trova realmente Dio; e chi lo ha trovato, può davvero amare il prossimo come se stesso. Si troverà infatti ad avere il limpido sguardo di quella fede, che vede la realtà di Dio anche nell‘uomo più sciagurato e se lo sa rendere in tutta verità degno di essere amato e trattato col massimo rispetto.
Nel prigioniero noi troviamo Cristo Signore. Dobbiamo trovarvelo: è un ordine. E dobbiamo trovarvelo in modo da accostarci a lui per il bene nostro, per la nostra propria salvezza e felicità.
Ritrovare noi stessi nei carcerati
Nei prigionieri, noi vediamo riflessi noi stessi, in quanto essi rispecchiano la nostra intima situazione personale.
Ogni uomo rifugge sempre da se stesso. Solo i santi giunti alla perfezione, possono affermare di non ingannarsi ormai più sul proprio conto. Soltanto i perfetti sono capaci di non soffocare in se stessi la verità di Dio. La verità che siamo tutti peccatori e che andiamo continuamente alla ricerca di noi stessi; la verità che tentiamo in mille maniere, ora grossolane ed ora sottili, di servire a Dio e ai nostri comodacci; la verità che noi siamo apatici, negligenti, pigri e testardi nell‘obbedire a Dio; la verità che non facciamo il nostro dovere, che sarebbe quello di amare Dio con tutto il cuore e con tutte le forze. Per cui, attenendoci alla S. Scrittura ed agli insegnamenti della Chiesa primitiva, possiamo esprimere il fatto del nostro pessimo rispetto alla verità, riconoscendo umilmente: noi siamo degli autentici prigionieri in catene, sinché lo Spirito di Dio e la sua grazia non vengono a liberarci.
Nel senso civile e forense della parola, si può benissimo esser liberi, perfettamente responsabili dei propri atti, tanto davanti agli uomini quanto davanti a Dio e al suo giusto e benevolo giudizio; ma allorché non si viene prosciolti dallo Spirito di Dio, e portati alla libertà di Cristo, malgrado tutta la propria libertà terrena e la conseguente responsabilità di fronte al Signore, si è pur sempre rinchiusi nel carcere della propria colpa, privi di salvezza e impossibilitati a qualsiasi atto di riabilitazione. Si è insomma prigionieri, senza scampo e senza speranza. E di questo, coloro che noi visitiamo sono una perfetta immagine. Ci mostrano il quadro di tutti coloro che siedono nelle tenebre e nell‘ombra della morte, di coloro che sono incarcerati nell‘oscura prigione della loro qualità di esseri finiti, di coloro che non hanno ancora ricevuto la libertà di Cristo e quindi rimangono tuttora schiavi del peccato, della carne, delle potenze del male. Immagine di questa prigionia del «mondo» è il carcere in cui voi svolgete il vostro ministero. E non solo in un senso meramente esteriore ed artificiale, non per una pura analogia o per un traslato artistico, bensi come rappresentazione effettiva, come autentico e reale tipo, come visualizzazione di una realtà occulta, che in questo realistico simbolo si crea una percettibilità fenomenica. Infatti, quali che siano le cause prossime della prigionia e le pene dei reclusi, l‘unica e determinante causa resta pur sempre la colpa iniziale dell‘umanità. Quella colpa che continua attraverso ogni peccato personale del singolo individuo, presentandosi a noi incarnata anche nella miseria, nella malattia e nella sventura; quella colpa che esercita una malefica influenza anche sulla nostra stessa vita, tanto è vero che le istituzioni da noi designate col nome di carceri e case di pena — in rapporto all‘impostazione cristiana dell‘esistenza — altro non sono fuorché ben visibili celle d‘isolamento di quella grande prigionia, che la Scrittura chiama col nome di «mondo»‚ di «presente eone»‚ di «mondo giacente nella malizia»‚ di regno del principe di questo mondo, di dominio delle potenze tenebrose e della morte e del male.
Quando dal vostro abituale ambiente di vita voi passate nelle carceri, non uscite dal mondo dell‘armonia, della luce e dell‘ordine per trasferirvi in quello della colpa e della privazione della libertà: viceversa, voi rimanete là dove siete in permanenza. Con solo una piccola differenza: per i sensi del corpo, risulta allora molto più evidente ciò che sempre ci circonda, ossia la mancanza di libertà dovuta alla colpa, la prigionia vera e propria da cui soltanto la grazia di Cristo ci può liberare elevandoci alla libertà dei figli di Dio.
Tuttavia — mi si potrebbe obiettare — benché tutto questo sia vero, noi siamo pure gli schiavi liberati, siamo creature ormai affrancate dalla servitù dei peccato, della legge, della vanità e della morte! D‘accordo che lo siamo; è sperabile che lo siamo; rafforziamo ogni giorno di bel nuovo il nostro cuore in questa speranza, quantunque purtroppo ci possa sembrare spesso di sperare contro ogni speranza. Ogni giorno noi consoliamo il nostro animo con questa speranza, che unicamente la fede — e non la nostra esperienza, e non la nostra farisaica coscienza — puó e deve istillarci. Ma anche ammesso questo, finché peregriniamo nella speranza senza ancor aver raggiunta la visione, finché siamo redenti solo in speranza, finché stiamo correndo senza aver ancor raggiunta la meta, restiamo pur sempre quasi dei prigionieri ai quali si apre la porta del carcere. Assomigliamo a dei reclusi, destati improvvisamente come da un inatteso miracolo benedetto, incitati imperiosamente ad alzarci e a partire come Pietro scrollato dall‘angelo: «sù, alzati» (At. 12,7), mettiti la cintura e seguimi; mentre all‘istante le catene cadono dalle nostre mani.
Noi siamo creature che pervengono alla libertà, che possono dire d‘averla raggiunta per davvero, soltanto quando non la considerano un loro ovvio e connaturale possesso; creature che possono dire di goderla, soltanto quando si ricordano, tremanti ancora di paura, da dove vengono, creature consapevoli di poter ricevere impunemente dall‘alto la libertà di Cristo, come un dono che non si potrà mai trasformare in una definitiva condanna a loro carico, soltanto quando la redenzione della schiavitù verrà da loro accettata unicamente tramite la grazia di Dio.
Ma non basta. Anche ammesso che noi siamo i redenti, anche dando per scontato che nei viventi in Cristo Gesù, e quindi in quanti credono ed amano non sussista più nulla di meritevole d‘eterna condanna, anche concedendo che il fondo intimo del nostro essere sia ornato dalla grazia e ripieno di Santo Pneuma, c‘è sempre qualcosa che dovrebbe lasciarci in sospeso. Difatti, quand‘anche tutto ció che pulsa dentro di noi — inderogabilmente soggetti al giudizio di Dio come siamo — non ci rendesse ormai più condannabili, anche allora continuerebbe pur sempre a sussistere dentro di noi in una contemporaneità assolutamente ineliminabile, la triste eredità del passato. E in realtà, non alligna forse ancora dentro di noi la brama insaziata del piacere? Non prospera ancora in noi lo spirito del mondo, la concupiscenza degli occhi, il desiderio della carne e la superbia della vita? Non siamo forse anche noi dei malati, dei passionali, dei fin troppo facili mistificatori di se stessi, degli egoisti, dei maniaci sotto qualche aspetto (almeno in forma leggera)? Se per ipotesi ci si presentasse qualcuno, se venisse per esempio Dio, e si mettesse a scrutare il nostro cuore non unicamente con la fredda spietatezza d‘un medico psicanalista bensi con l’incorruttibilità tipica di Colui che é la verità e la santità suprema, analizzando i nostri moventi, il modo di comportarci, le nostre abitudini incallite, i nostri reconditi impulsi accuratamente dissimulati anche di fronte a noi stessi, mettendoci nudi e senza orpelli a confronto con noi stessi, così come siamo e non come ci piace posare ed apparire persino al nostro sguardo, chi non si sentirebbe in dovere di cadere esterrefatto in ginocchio davanti a questo giudice dei cuori esclamando: « Signore, allontanati da me che sono un uomo peccatore »? Allora, la sua grazia che ci santifica, non ci apparirebbe forse qualcosa che noi non siamo nel modo più assoluto? Allora non dovremmo forse sospirare, piangendo di commozione: questo sei tu, l‘incommensurabilità del tuo amore, la quasi insensata prodigalità della tua misericordia; mentre invece io non sono niente? Io sono solo un povero prigioniero, ottuso e codardo, rinchiuso in me stesso; sono quel confuso ed imbrogliato fardello di passioni sregolate, di cose affastellate a casaccio, di fattori determinanti che dall‘esterno mi muovono come un burattino; sono un essere nel quale non si riesce mai a distinguere bene quali siano gli elementi veri ed autentici, e quali invece siano una mera facciata ingannatrice, quale sia la realtà effettiva di cui è impastata la mia vita: se é la miseria che provoca in me l‘umiltà della virtù, oppure invece la mia virtù è un travestimento della miseria.
Orbene, non dovremmo forse pregare anche noi piangendo col Salmista: «Se tu le colpe ricordi, o Signore, chi potrà starti innanzi? Non istituire un processo contro di me, liberami anche dai miei peccati occulti!»? Non dovremmo forse riconoscere in tutta onestà che, in fin dei conti, anche noi ci differenziamo ben poco da quei poveri peccatori che andiamo a trovare in carcere? Non dovremmo anzi confessare che ci distinguiamo da loro unicamente perché il «fomes peccati» — radicato con la stessa tenacia tanto in loro quanto in noi — non ci ha portati al par di loro in conflitto anche con gli ordinamenti esteriori degli uomini e della società, solo per fortunate circostanze che non sono affatto merito nostro, ma pura sorte, destino, caso? Possiamo ben dirci riconoscenti a Dio anche per queste circostanze, e molto. Ma vi sembra che questo fatto ci renda così superiori a loro, da ritenerci dispensati — noi che siamo i redenti — dal riconoscerci in loro, da obbligarci a negare che nel loro volto vediamo riflessa la nostra stessa immagine, crudamente smascherata?
Tanto più poi, non possiamo nemmeno affermare che essi non siano in grazia di Dio, perchi tutto quanto riscontriamo in loro di indubbiamente colpevole può anche essere una mera malattia e una colpa della società di cui forse noi stessi siamo complici, avendone tratto in passato e traendone tuttora la nostra buona parte di benessere, di sicurezza piccolo-borghese e di società soddisfatta. E quasi non bastasse, ricordiamoci che neppure noi siamo proprio sicuri di essere in grazia di Dio…
Per cui, resta assodata una cosa: noi incontriamo noi stessi, quando andiamo incontro ai prigionieri reclusi nelle carceri; essi ci presentano — come in un effetto speculare — il nostro stesso ritratto, quella immagine alla quale dobbiamo spietatamente metterci di fronte giorno per giorno, se vogliamo ottenere noi stessi la grazia di Dio, che vien data unicamente a quanti si riconoscono peccatori, costruendo la loro esistenza soltanto sull‘unica base della misteriosa grazia di Dio, che ha pietà delle anime perdute. Non abbiamo scelte da fare. O passiamo nelle prigioni come i farisei, blaterando: «Ti ringrazio, o Signore, perchè io non sono come uno di costoro, che sono ladri, impostori, adulteri»; oppure ci comportiamo come il pubblicano descritto nel Vangelo di S. Luca, che se ne stava laggiù in disparte, in quella lontananza in cui la nostra gretta sensibilità immagina sempre il carcere come reietto da Dio, battendosi il petto — il suo petto, e non quello degli altri, come tanto volentieri facciamo anche noi visitando i carcerati — e dicendo: «O Dio, sii propizio verso di me che sono un peccatore!» (Lc. 18,9-14). Soltanto a1lorché entriamo nelle carceri con l‘animo del pubblicano nel tempio, il carcere si cambierà per noi poveri peccatori in un tempio, partendo dal quale torneremo a casa giustificati. Diversamente, finiremo col rinchiuderci nell‘autentico carcere della nostra cecità, della nostra ipocrisia e del nostro orgoglio che si oppongono a Dio; mentre forse coloro che restano chiusi in prigione finiscono con l‘essere loro i giustificati e i liberi dinanzi al Signore.
Per cui è un fatto: nei prigionieri noi ritroviamo noi stessi, vedendo riflessa in loro la nostra propria situazione interiore. Ogni forma vitale, e quindi persino il ministero più sublime, hanno sempre alle spalle un nemico mortale: l‘abitudinarietà e la «routine». Purtroppo, dell‘abitudine e dell‘assuefazione abbiamo anche bisogno. Senza di esse non possiamo resistere a lungo. Esse ci facilitano molti compiti che diversamente sorpasserebbero ben presto le nostre forze; sembrano spesso essere quasi una mite narcosi, riservataci benignamente da Dio per alleviarci le pene dell‘esistenza.
Ma resta però anche il nemico numero uno della nostra vita e del nostro ufficio sacerdotale. Essa infatti ottunde e istupidisce, portandoci a continuare la nostra attività anche quando l‘afflato che l‘anima — lo spirito zelante e la carità — s‘è già da un pezzo inaridito ed è scomparso dal nostro agire. Essa possiede il tremendo potere di istillarci la sensazione di avere «la coscienza a posto» anche allorché dovremmo invece riconoscere di avere «la coscienza sporca». Ci rende euforici, incitandoci a calcar la mano sulle nostre buone azioni, invece di batterci il petto confessando umilmente che in esso pulsa un amore troppo scarso, poca cordialità, poca umiltà e poco rispetto per gli uomini, tanto più se reietti dalla società.
Dobbiamo instancabilmente lottare contro questa letale abitudinarietà, combattendola come un astuto, pericolosissimo e mortale nemico. Anche in un ministero così delicato ed alto come il vostro.
E’ davvero una grazia di Dio che la sua Provvidenza vi assista in questa lotta, sostenendovi non solo con la grazia della santa soddisfazione che rallegra il pastore quando riesce a portare un’altra pecorella nel caldo e amoroso ovile di Dio, ma irrobustendovi anche con le inevitabili disillusioni ed amarezze inerenti al vostro ufficio, con tutta la sprezzante noncuranza degli uomini, con tutti gli aspetti deprimenti e afflittivi annessi alla vostra missione.
Se queste dure ed amarissime esperienze riusciranno a stanarvi dalla mediocrità dell‘abitudine e della routine, facendovi ricordare continuamente il fine specifico per cui lavorate e spendete le energie nel vostro ufficio, costringendovi a riflettere sull‘altissimo significato e l‘insigne grazia della vostra vocazione, rammentatevi sempre che sono anch‘esse una grazia di Dio. E appunto questa in grazia alla quale dovete andare incontro, facendo leva a sua volta su un‘altra grazia, che sommessamente e discretamente vi viene in aiuto purché sappiate soffermarvi davanti a Dio, meditando e pregando, a riflettere sull‘importanza e sulla finalità della vostra missione.
Se in tale orante meditazione vi sovverrà pure che, nei carcerati affidati alle vostre cure sacerdotali e pastorali, possiamo realmente trovare Cristo anche per noi stessi, e inoltre che vedendo riflessa in loro come in uno specchio l‘immagine della nostra situazione interiore veniamo richiamati a quell‘umiltà cui compete in esclusiva la promessa della grazia divina, finirete col cavarne ottimi frutti. Da questa meditazione, infatti, potrebbe fluire piena e compatta quell‘unità di vocazione e di vita, di ministero e di esistenza personale, che di per sé non viene offerta in modo così sublime e pregnante di grazia a nessun‘altra missione fuorché a quella del sacerdote.
missione e grazia – saggi di teologia pastorale,
edizioni paoline, Roma 1964, pp. 667-691
Il testo è stato messo a disposizione dall’archivio Karl Rahner